Gli ospizi del Passo del Bocco, delle Scalette, dell’Incisa e del Tomarlo.
di Corrado Truffelli
Al Medioevo risalgono i resti di quattro ospizi collocati lungo la strada passo del Bocco – Passo del Tomarlo; strada che, dal Bocco, ove si giunge, oltre che dalla valle del Taro, sia dalla val di Vara che dalla val Sturla, conduceva, attraverso la Costa del Ghiffi e il Passo della Scaletta, al passo dell’Incisa e poi al Tomarlo, da cui si poteva poi proseguire, a sinistra, verso Santo Stefano d’Aveto, e, a destra, verso la val Ceno, da dove, raggiunto il passo dello Zovallo, verso la Val Nure: un tratto di strada che, in breve spazio, mette in comunicazione sei valli.
Scriveva, in proposito, don Celso Mori: “Questi tre ospizi del Bocco, della Scaletta, e dell’Incisa erano collegati tra di loro da una strada, scavata a stento sulle più scoscese balze che si possano immaginare [l’enfasi è d’obbligo, n. d. r.], che il Sen. Mariotti attribuisce agli antichi liguri”.
L’importanza di tale itinerario è testimoniata da diversi documenti del passato; così, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, Stefano Lazagna, scrivendo al Doge e al Governo di Genova in ordine ad una controversia di confine di con lo Stato Landi, osserva che i territori contesi (la valle della Tarola, Codorso, ecc.) non potevano essere riconosciuti ai Landi essendo “il passo molto commodo e più breve verso il Piacentino, e la Lombardia, et ne priverebbe il luogo di Varese, quale del tutto si annichilarebbe”1 ; il Boccia, da parte sua, scrive due secoli dopo: “La selva è foltissima, ma però vi è una strada, che conduce nella Liguria, cioè a Varese, e a Sestri. Difatti trovai per la via varj mulattieri con sei muli carichi di vino procedenti da Varese, che andavano a Santo Stefano situato sotto il monte Tomarlo dipartimento dei monti Liguri”2; del resto, la presenza di ben quattro ospizi in un tratto sicuramente impervio e privo di luoghi abitati, ma che si percorre in un giorno di cammino, può essere un indice della sua importanza.
Alcune notizie su di essi ci sono offerte da don Celso Mori nella sua Storia di S. Maria del Taro: “Al passo del Bocco, m. 953 s.m. a cui confluiva anche la strada che da Varese Ligure portava a Chiavari, sorgeva […] un ospizio, o ospedale o pellegrinario, o rifugio per i viandanti, con annesso oratorio […]3
Quest’ospizio era dedicato a S. Giacomo, e di esso si hanno notizie sui primordi del 1200. Si sa inoltre che nel 1224 dipendeva dall’Abate di Borzone Gerardo Ravaschieri. Da una carta poi di quest’archivio parr[occhiale] del sec. XVIII risulterebbe che i priori del Taro vi andassero, in vari giorni dell’anno, a celebrarvi Messa”4 .
Oggi, nulla è più identificabile di quell’ospizio; secondo la testimonianza del sig. Enrico Lusardi, che gestiva il locale posto proprio al valico, l’ospizio sorgeva in corrispondenza della prima curva, oltre il passo, della strada che scende verso Chiavari, sulla sinistra (per chi scende) della strada attuale.
Dell’ospizio della Scaletta, don Mori diceva che “A questo passo sorgeva pure un ospizio di cui esistono ancora i ruderi. La località viene chiamata ancora il Convento, di questo però, nonostante tutte le ricerche, non si è potuto avere alcuna notizia”.
Guidato dal signor Alfredo Questa dei Casoni di Santa Maria del Taro, appassionato conoscitore della montagna, ho potuto individuare i resti dell’ospizio, posti nella pineta poco al di sotto dell’ampio sentiero (oggi parte dell’Alta Via) che ripercorre l’antico itinerario, prima che esso si inerpichi per le scoscese balze del Passo della Scaletta (un tempo Scalizzole); si tratta di un grande cumulo, ricoperto da erba e arbusti, lungo circa quindici metri, largo circa otto e alto oltre due, da cui spuntano numerose pietre lavorate; altre tracce di muri sono disseminati attorno.
In questa località è stata ritrovata una pietra scavata, che si è supposto essere stata un’acquasantiera; è stata trasportata presso la chiesa parrocchiale di Santa Maria, dove è posta sul pavimento
Ancora don Mori ricordava che “i monaci eressero un ospizio o ospedale sotto il pericoloso valico dell’Incisa, verso Santa Maria, in un pianoro detto ancor oggi Ospedale; vicino a una freschissima fonte chiamata fontana dei Frati. Di questo ospizio rimangono ancora i ruderi”.
Citato il passo del Capitano Antonio Boccia di cui si dirà, ricordava come, “nel secolo scorso venne trovata da un pastore una campanella a cariglione custodita ora nella Chiesa di S. Maria del Taro, la quale […] venne giudicata del sec. XIV-XV”; annotava, infine, che la “strada aveva il ciottolato di sassi: che si può vedere ancor oggi, quantunque coperto di terriccio”, e che “l’ospizio dell’Incisa era a sua volta collegato con l’altro ospizio che sorgeva al passo del Monte Tomarlo”.
Il Boccia, da parte sua, riferiva che “Scendendo placidamente per andare a Grondana, corpo di Santa Maria del Taro, viene dal Pennino un abbondantissimo fonte chiamato la fontana dell’Ospedale. Alla sua destra in poca distanza vi è un prato ove osservansi i fondamenti di un’antico Monastero chiamato l’Ospedale. Distinguonsi anche al dì d’oggi le mura, che formavano la parte dell’elissi del Coro, e fra i rottami si vede qualche pietra piccata tuttora intiera”.
Condotto dal maestro Giannino Agazzi di Bedonia, straordinario conoscitore della nostra montagna, ho potuto osservare i resti dell’ospizio; le rovine si raggiungono facilmente dal Passo dell’Incisa scendendo nella ripida faggeta in direzione sud; si trovano in una fitta ma circoscritta macchia di abeti, poco discoste dal rio dell’Ospedale, non lontano dalla sua confluenza nel rio Incisa; tutto attorno la presenza di pietre collocate dalla mano dell’uomo è piuttosto diffusa5.
Come si è detto, don Mori ricordava come l’ospizio dell’Incisa fosse a sua volta collegato con un quarto ospizio, posto presso il monte Tomarlo; di esso dice che “anche di esso si hanno memorie fin dal 1200 dal Not[aio] Gugl[ielmo] Cassinese, il quale redigendo il processo svoltosi per ordine di Papa Innocente III per una controversia sorta tra il Vescovo di Piacenza e l’Abate di Borzone cita come teste un certo Bernardo che vien detto ospitaliero dell’Ospedale del Tommarlo”; ne deduce che anche gli ospizi della Scaletta e dell’Incisa risalissero a prima del XIII secolo .
In proposito, il Boccia aveva precisato: “Da questo Monastero, ossia Spedale [dell’Incisa], si comunicava con un altro situato a piè di Monte Tomarolo nel luogo detto il Casone dei Bozzini distante quattro miglia da questo”6.
In un documento del 1330, gentilmente fornitomi da Daniele Calcagno, è riportato l’atto con cui Percivalis de Flisco concedeva in affitto a Guillelmus de villa de Alegrancia “petiam unam terre laborative prope hospitale Tomarli cui coheret superius sommitas montis et inferius terre monasterii de Borzono”7.
Unitamente a Giannino Agazzi, abbiamo potuto constatare che il toponimo “Casone Bozzini” è ancora ben conosciuto sul versante della Val d’Aveto e, particolarmente, a Villa Neri, posta in Comune di S. Stefano, sotto il passo del Chiodo.
Sulla base delle indicazioni ricevute, si sono individuati i labili ruderi rimasti, posti proprio sul crinale, a circa 1350 m.s.l.m., sul lato parmense, all’intersezione della vecchia strada che dal Penna (passo del Chiodo) va verso il Tomarlo con la strada che da Volpara (Bedonia) andava verso Alpicella; oggi si trovano a poche decine di metri dalla strada che dal Chiodo va al Tomarlo; il sito è prossimo alla grande roccia ofiolitica che costituisce la sommità del Tomarlo.
Si tratta di resti a appena affioranti dal terreno, disseminati su una superficie di circa 18 per 9 metri, del tutto abbandonati e a rischio di cancellazione .
1 Si veda la Relatione di Stefano Lazagna in Archivio di Stato di Genova, fondo Archivio Segreto, busta 301.
2 Antonio Boccia, Viaggio ai monti.., cit., p. 145.
3 Don Celso Mori rinviava a G. Brizzolara, Storia dell’Abbazia.., p. 66 (G. BRIZZOLARA, Storia dell’Abbazia parrocchiale e plebana di S. Andrea di Borzone nella valle di Sturla presso Chiavari fondata da Mons. Ugone Della Volta Arcivescovo di Genova nell’anno 1184, S. Pier D’Arena, Tipografia Salesiana, 1891); anche L. Devoto scriveva che Presso il valico del Bocco […] sorse nell’anno 1000 il chiostro ospedaliero intitolato a S. Giacomo (p. 402) (L. DEVOTO, Per le vie della Liguria, Ambrosiana Editoriale, 1934).
4 Celso Mori, Storia di S. Maria del Taro, Supplemento del Bollettino Parrocchiale di S. Maria del Taro, (Parma), Chieri, Stabilimento lino-tipografico chierese di G. Martano, 1939; ripubblicato, con aggiunte, in:
S. Maria del Taro e il Monte Penna, a cura di F. Ferrari, Parma, Tipografia G. Ferrari & Figli, 1964.
5 Si legge in Canto di un patrimonio silente..(p.53) che “I vecchi di Amborzasco lo chiamavano ospe-dalaccio e dicevano che nei suoi pressi vi erano delle catacombe”; questo accenno ha assonanza ad un racconto riferito da Giannino Agazzi, che fa cenno ai morti seduti che sarebbero stati rinvenuti in tombe non lontane dall’Ospizio (D. CALCAGNO, M. CAVANA, S. SBARBARO, Canto di un patrimonio silente – Pietre disposte a suggerir cammino, Rezzoaglio – Santo Stefano d’Aveto, 2003).
6 Il testo prosegue: “E’ voce comune che per facilitare tale comunicazione vi fosse una strada dall’uno all’altro Monastero lastricata in lamine di pietra, ed esistono tuttora dei vecchi che non son molti anni ne videro qualche parte”; il Boccia si diverte poi a confutare chi sosteneva che quella strada fosse stata “fatta e lastricata dai soldati d’Annibale”(pp. 147-148).
7 Civica Biblioteca Berio, Genova: Sezione Conservazione, manoscritto composito della terza decade del XVII secolo, segnatura m.r. IX. 5. 11.. [I c. 86 r.].
Sempre in Canto di un patrimonio silente si legge: “Nei pressi del passo [del Chiodo] esisteva un hospitale […] L’erudito Bobbiese Cesare Bobbi così scrive a proposito dell’architrave dell’ospizio: Secondo la tradizione questa pietra fu trovata sul Monte Chiodo, dove proprio in cima, dicesi, trovavasi un convento di benedettini, e che colà vi si trovano ancora tratti di fondamento di edifici; questa pietra tolta di là prima fece da architrave sulla porta della chiesa di Alpicella poi […] fu messa dove si trova come architrave sulla porta di accesso al campanile […]”; inoltre: che è noto “un Bernardo hospitalarius de Tomardo nell’anno 1200” (pp. 55-56).